Il lato oscuro dello Stato

la trattativa di Sabina Guzzanti: un j’accuse fra cinema e teatro

Giulia de Savorgnani

la trattativa, Regia: Sabina Guzzanti, Fotografia: Daniele Ciprì, Montaggio: Luca Benedetti, Matteo Spigariol, Colonna sonora: Nicola Piovani, Produzione: Cinema s.r.l., Secol Superbo e Sciocco Produzioni srl, Paese / anno: Italia 2014, Durata: 104 minuti.

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“Lui è caduto per terra. E da terra mi sorrideva”. “Lui” era don Giuseppe Puglisi. Chi lo ricorda è Gaspare Spatuzza, killer di fiducia dei fratelli Graviano, che lo uccise in pieno giorno a Palermo nel 1993 e nel 2008, dopo anni di carcere e un percorso di fede, decise di collaborare con la giustizia. Ma non è il fatto di aver ucciso un prete a tormentare Spatuzza. E nemmeno gli altri morti che ha sulla coscienza. No. Ciò che gli rovina il sonno è quel sorriso di ‘don 3P’1, di cui non riesce a liberarsi.

Si conclude così la trattativa, il film scritto, diretto e interpretato da Sabina Guzzanti e presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2014. Non si tratta di un classico film di denuncia né di un giallo a sfondo mafioso o di un reportage giornalistico, bensì di un esperimento dichiaratamente ispirato al cinema civile di Elio Petri. Infatti, dopo aver introdotto lo spettatore in medias res proprio tramite la figura di Spatuzza, la regista romana gli si rivolge con parole analoghe a quelle con cui Gian Maria Volontè si rivolgeva al pubblico nel cortometraggio di Petri tre ipotesi sulla morte di giuseppe pinelli (1970)2, che metteva sarcasticamente in luce le ambiguità e le incongruenze di uno dei più oscuri misteri della storia italiana affidandosi a una messa in scena attoriale e trasformando così la fredda ricostruzione dei fatti in una sorta di racconto popolare partecipato. Se il corto in bianco e nero di Petri si svolgeva tutto nel ristretto e quasi claustrofobico perimetro di una stanza, che rappresentava l’ufficio del commissario Calabresi, e si affidava esclusivamente all’interpretazione degli attori, Sabina Guzzanti ci porta in un teatro di posa e dopo aver dichiarato: “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo e abbiamo deciso di mettere in scena i fatti sinora noti sulla vicenda della trattativa Stato-mafia”, ci fa assistere alla minuziosa ricostruzione di circa 25 anni di storia italiana ‘occulta’ in un intreccio di finzione e realtà, accostando alla recitazione immagini di repertorio e ricostruzioni d’impronta didascalica con soluzioni grafiche adeguate al pubblico contemporaneo. Muovendo da premesse brechtiane, la regista romana dà vita dunque a un prodotto di genere ibrido che oggi possiamo definire docufiction, di cui è necessario chiarire innanzi tutto lo sfondo storico.

Il contesto storico: la trattativa Stato-mafia

Che cosa s’intende per ‘trattativa Stato-mafia’? Si tratta di una vicenda estremamente intricata che in questa sede si potrà solo riassumere per sommi capi. Già la domanda stessa, l’ipotesi che lo Stato possa aver intavolato dei negoziati con Cosa nostra, è destabilizzante. Non meno provocatoria è la locandina del film (e cover del DVD), che mette il profilo di un oscuro mafioso con coppola e lupara al posto dello stellone al centro del simbolo della Repubblica italiana.

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1. Cover del DVD

Destabilizzante fu, del resto, il periodo della storia italiana su cui è incentrato il film, in particolare il biennio 1992–1993. Quel biennio iniziò con lo scandalo di Tangentopoli e con l’inchiesta Mani pulite che, mandando a gambe all’aria il sistema partitico esistente, suscitò l’impressione e in molti cittadini la speranza che tutto potesse cambiare, come sottolinea più volte la stessa Guzzanti nella sua funzione di narratrice. Chi nutriva questa speranza accolse con soddisfazione anche la sentenza della Corte di Cassazione che il 30 gennaio 1992 confermò gli ergastoli inflitti ai principali boss mafiosi dalla Corte d’Assise di Palermo nel 1987, in seguito al cosiddetto maxiprocesso, frutto del lavoro investigativo condotto dai magistrati del pool antimafia guidati da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quella sentenza scatenò però l’ira del ‘boss dei boss’, Salvatore Riina, allora latitante, che secondo l’atto d’accusa della Procura di Palermo, stilò una lista di politici da punire per non aver saputo o voluto evitare le condanne definitive. Il primo a pagare con la vita fu l’europarlamentare democristiano Salvo Lima, considerato la longa manus siciliana del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti e simbolo della collusione fra politica e mafia, ucciso il 12 marzo 1992. Ebbe inizio così una lunga serie di omicidi ‘eccellenti’ e di stragi, a cominciare da quella di Capaci – in cui il 23 maggio ‘’92 morirono Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo – e quella di via D’Amelio, in cui restarono uccisi, il 19 luglio, Borsellino e la sua scorta (Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi, la prima donna a perdere la vita in questa funzione). Nel gennaio dell’anno successivo venne arrestato Riina e le stragi mafiose raggiunsero il continente: un’autobomba esplose il 14 maggio a Roma, in via Fauro, senza provocare vittime; un’altra uccise cinque persone a Firenze in via dei Georgofili il 27 maggio; cinque persone vennero uccise da un’autobomba il 27 luglio a Milano, in via Palestro, mentre nelle stesse ore altre due bombe esplosero nella capitale; in ottobre fallì per motivi tecnici un attentato allo stadio Olimpico di Roma, previsto in occasione della partita Lazio-Udinese. Per far cessare le stragi, alti esponenti delle istituzioni avrebbero quindi avviato una trattativa con i vertici di Cosa nostra che chiedevano in cambio, tra l’altro, l’alleggerimento del 41 bis3, cioè del regime di carcere duro per i detenuti mafiosi. Nella sentenza di condanna emessa dal tribunale di Firenze contro il boss Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili si legge: “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia.”4 A contattare Cosa nostra, attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, sarebbero stati, già nel 1992, alti ufficiali dei carabinieri del Ros5, che da Ciancimino sarebbero stati informati del cosiddetto “papello”, cioè la lista delle richieste dei boss da inoltrare ai vertici dello Stato. Su questi negoziati – in cui sarebbero implicati uomini politici, esponenti delle forze dell’ordine, agenti dei servizi segreti, membri della massoneria, magistrati – hanno aperto le indagini le Procure di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze. Il 7 marzo 2013 è iniziato un processo che vede sul banco degli imputati dieci persone, fra le quali l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa estimonianza, il co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri6, il comandante del Ros Antonio Subranni, gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Salvatore Riina e Leoluca Bagarella.7

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2. Ricostruzione del processo nella docufiction

Il 28 ottobre 2014 ha deposto davanti ai giudici l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, chiamato a testimoniare, in particolare, in merito ad alcune sue telefonate con Mancino e a una lettera del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. Parlando degli attentati del 1993, Napolitano ha affermato:

[...] si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut-aut, perché questi aut-aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del Paese.8

In occasione di questa testimonianza Sabina Guzzanti – il cui film era da poco uscito nelle sale chiamando direttamente in causa ben due Presidenti della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro e lo stesso Napolitano – ha fatto scalpore postando un provocatorio tweet di solidarietà a Riina e Bagarella, ai quali la Corte d’assise di Palermo aveva negato l’autorizzazione ad assistere in videoconferenza all’udienza9, e scatenando così una polemica ripresa sulle pagine dei maggiori quotidiani.10

Il racconto

È bene precisare subito che la docufiction di Sabina Guzzanti punta i riflettori sulla trattativa fra lo Stato e Cosa nostra e sulle vicende ad essa legate, dedicando ben poco spazio all’altra faccia della medaglia, cioè all’impegno di magistrati e forze dell’ordine nella lotta alle mafie.

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3. Ricostruzione: movimenti meridionalisti e di estrema destra

Il film è il frutto di un lavoro durato quattro anni: libri, articoli, verbali e registrazioni di udienze sono confluiti in un racconto che non procede in ordine strettamente cronologico, ma in cui si possono individuare sostanzialmente tre nuclei, ciascuno dei quali ruota intorno a un perno. Il primo nucleo, imperniato sulla stagione delle stragi, segue il filo rosso che collega le sentenze del maxi-processo alla nascita della cosiddetta seconda repubblica, passando per Capaci e via D’Amelio. Rientrano in questa ricostruzione anche le pressioni esercitate sul mondo politico, e in particolare sulla Democrazia Cristiana, per la revisione delle sentenze nonché l’attività dei movimenti meridionalisti e di estrema destra che sfocia nel progetto di dividere l’Italia in tre macro-regioni ‘affidando’ il Sud alle mafie, poi accantonato in favore di una soluzione ‘migliore’, quella di un nuovo partito ben accetto a Cosa nostra, prospettata dal “compaesano” Dell’Utri.

Il secondo nucleo ruota attorno alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza – che fanno crollare, tra l’altro, la sentenza del primo processo Borsellino, basata su testimonianze rivelatesi false – e a quelle del confidente Luigi Ilardo, il quale indica al colonnello della D.I.A.11 Michele Riccio una pista investigativa che porta a scoprire dove si nasconde Bernardo Provenzano. Una pista che finisce nel nulla perché il colonnello Mori evita l’arresto del boss e Ilardo viene ucciso. Rientrano in questo nucleo anche espliciti riferimenti alla massoneria e alla collusione tra Forza Italia e Cosa nostra.

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4. Il confidente Ilardo con il colonnello Riccio

Un terzo nucleo, infine, ruota intorno alle rivelazioni del figlio di Vito Ciancimino, Massimo, grazie alle quali viene alla luce l’esistenza del “papello” di Riina e di un “contropapello” redatto dallo stesso Vito Ciancimino.

Dal collegamento fra questi nuclei di racconto emerge una tesi ben precisa: le stragi mafiose del ‘’92/’93 non avrebbero avuto soltanto lo scopo di punire politici che non avevano mantenuto le promesse e di eliminare magistrati scomodi, ma anche quello di fare tabula rasa dei rapporti con la vecchia politica, la quale non dava più sufficienti garanzie, per poter poi allacciare nuovi rapporti, che si sarebbero concretizzati nel 1994 con Forza Italia di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. E che nell’agenda rossa di Paolo Borsellino, misteriosamente scomparsa subito dopo l’omicidio del magistrato, si troverebbero le prove di tutto questo.

La rappresentazione

Come Elio Petri, anche la Guzzanti ha, dunque, una tesi da sostenere, ma mentre il primo lascia che essa emerga ‘naturalmente’ dalla rappresentazione in chiave satirica, Sabina Guzzanti la espone in maniera ben più esplicita, pur con tutte le cautele del caso. Il film sembra nascere dall’urgenza di fare controinformazione, proprio come Petri o Dario Fo12 negli anni Settanta, adeguando però la metodologia al mondo e alle modalità ricettive dello spettatore del terzo millennio, in particolare al pubblico italiano di massa più avezzo alla tv e ai social network che al teatro. Il racconto – che si apre e si chiude con Spatuzza impegnato a sostenere, in carcere, un esame di teologia – procede con ritmo incalzante alternando messa in scena teatrale, fiction realizzata con l’ausilio del green screen, immagini di repertorio, interviste e spiegazioni visualizzate con animazioni grafiche. La finzione è esplicita, lo spettatore ha sotto gli occhi tutti i meccanismi della rappresentazione e vede come funzionano: le quinte, le luci, gli attrezzi, le telecamere, gli attori che si calano nel personaggio (e se ne spogliano) cambiandosi d’abito e sottoponendosi al trucco, la scenografia che si trasforma di continuo.

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5. Trucco di scena... in scena

È visibile persino il pubblico in sala, costituito da quello stesso “gruppo di lavoratori dello spettacolo” che interpreta il racconto: i membri della compagnia entrano ed escono con disinvoltura dalla storia e guidano lo spettatore parlando spesso in macchina per spiegare quali personaggi si preparino ad interpretare e quale ruolo essi abbiano in quella precisa fase della narrazione o per annunciare e commentare, con una gag ricorrente, i frequenti flashback. In questo modo lo spettatore si sente a sua volta dentro e fuori dalla storia narrata, immerso nella Storia in cui realmente vive e invitato a porsi fuori da essa, per osservarla, analizzarla, cercare di capirla. A completare questo pirandelliano gioco delle parti si aggiunge il fatto che i membri della compagnia interpretano più personaggi, presentandosi ora nelle vesti dei criminali ora in quelle di funzionari dello Stato e parlando, a seconda dei casi, in italiano standard, in dialetto siciliano o in italiano con inflessioni regionali: Enzo Lombardo, per esempio, recita nei panni del pentito Spatuzza ma anche in quelli del giudice e del barbiere, mentre la stessa Guzzanti compare nel ruolo di narratrice, di professoressa di teologia, di giornalista e di Silvio Berlusconi. Si cancella, così, il confine fra i buoni e i cattivi, fra la legge e il crimine: ne escono un ritratto a tinte fosche dell’Italia contemporanea e un profondo desiderio di ripristinare il confine tra il bene e il male. L’inquietante ambiguità intrinseca al tema è simbolicamente sottolineata anche dalla fotografia di Daniele Ciprì, che privilegia il chiaroscuro. Il cono di luce che illumina la scena sul palco sembra volerci chiarire la difficoltà di una ricostruzione d’insieme oggettiva: come a dire che, se di tanto in tanto si riesce a far luce su un tassello, il puzzle complessivo resta avvolto nell’ombra.

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6. Deposizione di Gaspare Spatuzza

Ecco dunque che la scelta di girare una docufiction si giustifica da sé: il solo film di finzione o il solo documentario non sarebbero stati adeguati alla complessità dell’argomento; in questo modo, invece, i due linguaggi cinematografici si compenetrano e si sostengono a vicenda poiché l’uno interviene laddove le risorse dell’altro non sono più sufficienti. La funzione informativa svolta dalle parti documentaristiche viene, così, costantemente accompagnata dalla riflessione etica suggerita dalla fiction. Questa scelta assicura inoltre ad autori e interpreti una maggiore libertà creativa perché consente di passare con scioltezza dal racconto tragico alla satira politica, dalla farsa alla ricostruzione informativa senza soluzione di continuità, mantenendo il racconto scorrevole e aperto all’interpretazione, precisando sempre che sulla scena si rappresenta di volta in volta la versione di un determinato testimone e non una verità oggettiva. E ciò senza nulla togliere alla linearità e alla chiarezza della tesi che alla fine emerge.

I personaggi vengono ricostruiti prevalentemente in chiave satirica stabilendo quelle distanze dalle persone reali che consentono l’analisi e il ragionamento critico. In generale, il cast risulta bravo a dosare i toni, tuttavia non manca qualche momento un po’ sopra le righe, come la rappresentazione del giudice Caselli (il quale fa la figura dello sprovveduto più che del colluso) o la caricatura berlusconiana interpretata dalla Guzzanti, fin troppo nota per poter funzionare anche in questo caso e facile bersaglio per la critica proveniente da destra.

A parte tali cadute di stile, il mix di finzione e documentazione, nel complesso, regge, consentendo di trattare con relativa leggerezza temi complessi e scottanti. La voce narrante, spesso fuori campo, conduce lo spettatore nei meandri di una vicenda quanto mai intricata. Sotto i nostri occhi scorrono così eventi ben noti e informazioni ignote ai più perché cadute nell’oblio o largamente trascurate dai media, fatti accertati e ricostruzioni indiziarie, come se la trattativa Stato-mafia uscisse dai faldoni delle Procure inquirenti per dar vita a un quadro d’insieme accessibile a un pubblico ‘medio’.

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7. Intervista

Un quadro che richiama prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica anche molti interrogativi inquietanti, come quelli relativi ai depistaggi e ai documenti scomparsi, prima fra tutti l’agenda rossa di Borsellino su cui la Guzzanti si sofferma a lungo nel finale. Un quadro, tuttavia, che lo spettatore poco esperto dell’argomento stenterà a collocare nel giusto contesto non solo a causa della quantità e complessità delle informazioni, in cui è facile perdersi, ma anche perché vi troverà gli aspetti negativi della lotta alle mafie non controbilanciati, se non in minima parte, da quelli positivi. Ed è per questo che l’ex magistrato antimafia Gian Carlo Caselli – il quale chiese il trasferimento da Torino a Palermo proprio all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e al quale la docufiction addebita la mancata perquisizione del ‘covo’ di Riina in seguito alla cattura del boss – ha definito “offensivo” raccontare “con tecnica da cabaret” quella “pagina grave e oscura”, sottolineando che non tenere conto del lavoro svolto dalla sua Procura e da “tutti coloro che a vario titolo (magistratura, amministrazione, polizia giudiziaria, cittadini)” vi hanno contribuito, “limitandosi a un piglio di dileggio gratuito, equivale a rendere un pessimo servizio alla rigorosa e completa ricostruzione di quanto realmente accaduto”.13

Se il ritratto dell’Italia contemporanea dipinto dal film sembra dunque lasciare poco spazio alla speranza, l’essenziale ottimismo della regista (“A me sembra che dedicare tante energie a questo lavoro, in un momento storico così confuso, fatto di rabbia e unanimismo, conformismo e frustrazione, sia un gesto di grande ottimismo.”14) emerge nel finale, che risulta tuttavia la parte forse meno riuscita della docufiction in quanto cede improvvisamente a un pathos che mal si concilia col tono ironico generale dell’opera. Nella sequenza che precede la scena conclusiva in cui Spatuzza parla di padre Puglisi scorrono infatti le immagini dei funerali di alcune vittime di mafia – si riconoscono, per esempio, Peppino Impastato, Rocco Chinnici, Pio La Torre e lo stesso ‘don 3P’, che funge da ponte – seguite da un’ipotetica ‘lettura’ in chiave guzzantiana dell’agenda rossa di Borsellino. In questa fase, anche la colonna sonora – affidata a Nicola Piovani – cambia registro: se fino a questo punto aveva mantenuto un ritmo incalzante accompagnando allo stesso modo gli episodi di finzione e le parti documentarie, ora invece propone musiche commoventi. La svolta retorica deve forse ricordare al pubblico e ai potenziali critici che, sebbene inseriti in una narrazione satirica e talvolta grottesca, i morti di cui si parla non sono usciti dalla penna di alcuno sceneggiatore ma dalla nuda realtà.

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8. Immagini di repertorio: telegiornale 1992

La trattativa nelle sale cinematografiche

La criminalità organizzata è da decenni presente nel cinema italiano e dagli anni Ottanta del XX secolo anche nella fiction televisiva. Agli spettatori si propongono trasposizioni cinematografiche di opere letterarie15, biografie sceneggiate di personaggi reali, storie di pura finzione, veri e propri documentari realizzati a scopo informativo per adulti16 o come materiale didattico per le scuole17. Lo stesso Festival di Venezia 2014 ha visto uscire, oltre a la trattativa, anche l’edizione restaurata di todo modo (1976) di Elio Petri, tratto da un racconto di Sciascia, e belluscone: una storia siciliana (2014)18, del regista palermitano Franco Maresco, incentrato sui rapporti tra Silvio Berlusconi e la Sicilia. La produzione in tema è dunque ormai vastissima e se in un primo tempo la mafia di cui si parlava era essenzialmente Cosa nostra, oggi lo spettro si è ampliato19 e tanto al cinema quanto alla tv gioca un ruolo di primo piano la camorra napoletana20. Anche la gamma dei generi e dei toni si è arricchita: se un tempo non ci si discostava dal genere drammatico, pian piano hanno cominciato a far capolino anche delle commedie, come johnny stecchino (1991) di e con Roberto Benigni o il recente la mafia uccide solo d’estate (2013), esordio alla regia di Pierfrancesco Diliberto. Sabina Guzzanti – che ha realizzato, come autrice e attrice, numerose produzioni non solo per il cinema, ma anche per il teatro ed è nota al grande pubblico italiano soprattutto grazie alla tv – attinge liberamente alle opere dei predecessori ponendo il suo lavoro a cavallo fra generi e toni diversi. A quale pubblico, dunque, si rivolge? Se i suoi film precedenti – come l’inchiesta giornalistica draquila (2010) – avevano attirato nelle sale prevalentemente spettatori di sinistra che apprezzavano la sua vis polemica e dissacrante, nella trattativa è evidente l’intento di rivolgersi a un pubblico più vasto, qualunque orientamento politico esso abbia: a quella larga parte dell’opinione pubblica che non legge libri e legge poco i giornali, ma anche a coloro che, pur tenendosi informati, non sono riusciti a farsi sfuggire o hanno dimenticato alcuni particolari della complessa vicenda Stato-mafia. Le premesse erano dunque buone, tanto più che il cinema, in quanto svago relativamente poco costoso, sta riconquistando i favori degli italiani. Tuttavia, il film ha avuto sinora un percorso accidentato: uscito nelle sale con regolare distribuzione nel settembre 2014, ha fatto registrare uno scarso successo di botteghino21 ed è stato perciò ritirato, dopo soli dieci giorni, dal circuito cinematografico. Successivamente, però, è ‘risuscitato’ attraverso canali di distribuzione alternativi: associazioni culturali, associazioni antimafia o semplici cittadini organizzano direttamente le proiezioni servendosi per esempio dei social networtk per dare il via a petizioni che le richiedono.22 Restano allora da spiegare le ragioni dello scarso interesse iniziale: semplicemente perché in un periodo di crisi le persone si rifugiano più che mai nei film leggeri, come dicono alcuni? O perché la pellicola è stata boicottata dai media, come sostengono altri? Oppure perché, di fronte a certi fatti, molti preferiscono chiudere gli occhi e rifugiarsi nel quieto vivere? O magari si tratta di un fenomeno più complesso, legato in parte al fascino del male, per cui oggigiorno – come suggerisce Tanja Weber analizzando altre opere sulle pagine di questa rivista – produzioni di diverso taglio come gomorra: la serie sembrano essere più adatte a suscitare interesse ed avviare discussioni rispetto al classico contrasto fra buoni e cattivi in stile poliziesco che ritroviamo, per esempio, nelle fiction dedicate a Falcone e Borsellino o a lavori d’impostazione documentaria come la trattativa?23

Considerazioni conclusive

Da la trattativa emerge una precisa tesi – non solo sui negoziati Stato-mafia degli anni Novanta, ma anche sul diffuso degrado morale che, di conseguenza, ha investito la società italiana – motivo per cui alcuni critici hanno accusato la regista di voler imporre agli spettatori la ‘sua’ verità, benché Sabina Guzzanti abbia energicamente affermato il contrario. E non è da escludere che lo scarso successo di botteghino sia da addebitare anche al fatto che una parte del pubblico si aspettasse dalla Guzzanti una rappresentazione dei fatti comunque tendenziosa e scontata. L’aspetto più interessante di questa docufiction potrebbe forse essere, allora, proprio l’accoglienza che le ha riservato il Paese – a partire dalla difficoltà a reperire fondi e a ottenere contributi statali – perché induce a riflettere sul rapporto che gli italiani hanno con lo Stato, con la politica e con certe tematiche scottanti.


  1. Don 3P (o don Treppì) era il soprannome con cui gli amici chiamavano padre Pino Puglisi, parroco della chiesa di San Giovanni, a Brancaccio, quartiere palermitano ad alta densità mafiosa. Don Puglisi fu ucciso il 15.09.1993, giorno del suo cinquantasettesimo compleanno, da Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza; i mandanti erano i boss locali, Filippo e Giuseppe Graviano (i quattro sono stati condannati all’ergastolo). Il particolare del sorriso del prete morente è stato realmente raccontato da Spatuzza, una volta diventato collaboratore di giustizia.

  2. “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo, ci proponiamo attraverso l’uso del nostro specifico, il comportamento degli attori, i registi, i tecnici, di ricostruire le tre versioni ufficiali, cioè quelle avallate dalla magistratura, sul suicidio, il presunto suicidio, dell’anarchico Pinelli”. tre ipotesi sulla morte di giuseppe pinelli è un episodio di documenti su giuseppe pinelli, realizzato da Elio Petri e Nelo Risi nel 1970. L’attivista anarchico fu fermato dalla polizia in seguito all’attentato del 12.12.1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano. L’inchiesta era condotta dal commissario Luigi Calabresi. Pinelli, che poi risultò estraneo ai fatti, morì il 15.12.1969 cadendo da una finestra del quarto piano della Questura di Milano e ancora oggi la dinamica dell’accaduto non è stata chiarita: l’ultima sentenza parla di un ‘malore attivo’.

  3. Il decreto che introduceva il 41 bis per i mafiosi fu convertito in legge l’8 giugno 1992.

  4. Cit. in: Dizionario enciclopedico delle mafie in Italia, a c. di Claudio Camarca (Roma: Castelvecchi RX, 2013), 888, a cui si rimanda per ulteriori informazioni sulla questione.

  5. Il Raggruppamento Operativo Speciale (ROS) è un’unità dei carabinieri specializzata nelle attività investigative sulla criminalità organizzata.

  6. Già condannato per concorso in associazione mafiosa.

  7. La posizione del boss Bernardo Provenzano, considerato il regista della trattativa ed arrestato nel 2006, è stata stralciata; l’ex ministro Calogero Mannino, anch’egli indagato, ha chiesto il rito abbreviato.

  8. Corte di Assise di Palermo, Verbale di udienza redatto da fonoregistrazione. Procedimento penale n. 1/13 R.G. a carico di: Bagarella Leoluca Biagio +9. Udienza del 28/10/2014, p. 40, pubblicato in calce a G. Bianconi, “La deposizione di Napolitano ‘Attentati di mafia per destabilizzare’”, Corriere della sera 31.10.2014, http://corriere.it/cronache/14_ottobre_31/napolitano-testo-deposizione-attentati-mafia-erano-ricatto-ef6f3aa8-60f4-11e4-938d-44e9b2056a93.shtml, 25.02.2016.

  9. La deposizione di Giorgio Napolitano non è avvenuta in tribunale, bensì al Quirinale.

  10. Il tweet della Guzzanti ha ricevuto sia commenti indignati, come quelli della parlamentare democratica Giuditta Pini e di Maria Falcone, sia manifestazioni d’approvazione come quella del deputato Carlo Sibilia (Movimento 5 Stelle) che in un tweet definisce Napolitano il “boss” di Riina e Bagarella. Cfr. “Stato-mafia, scoppia il caso Guzzanti”, la Repubblica 9.10.2014, http://repubblica.it/politica/2014/10/09/news/il_tweet_di_sabina_guzzanti_solidariet_a_riina_e_bagarella-97719684/, 25.02.2016.

  11. Direzione Investigativa Antimafia: organismo interforze composto da personale specializzato di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia penitenziaria, Corpo Forestale dello Stato.

  12. Il corto di Petri richiama subito alla mente il teatro politico di Fo e in particolare la commedia Morte accidentale di un anarchico, la cui prima andò in scena nel dicembre 1970, in concomitanza con il processo Calabresi che avrebbe dovuto chiarire le circostanze della morte dell’attivista anarchico. Nelle Note sulla rappresentazione successivamente pubblicate si sottolinea che “lo spettacolo si vide attribuito un ruolo di controinformazione e di cronaca quotidiana che avrebbe continuato a svolgere a lungo”, Le commedie di Dario Fo, VII, Morte accidentale di un anarchico: la signora è da buttare (Torino: Einaudi, 1974/1976/1988), 79.

  13. Cfr. Gian Carlo Caselli, “La Trattativa, ex procuratore Caselli: ‘Sviste e omissioni nel film della Guzzanti’”, il Fatto Quotidiano 07.09.2014, http://ilfattoquotidiano.it/2014/09/07/la-trattativa-ex-procuratore-caselli-sviste-e-omissioni-nel-film-della-guzzanti/1113390/, 29.02.2016.

  14. Sabina Guzzanti, Note di regia, http://latrattativa.it/prodotto/note-di-regia/, 27.02.2016.

  15. Si va dal classico giorno della civetta che Damiano Damiani trasse dall’omonimo romanzo di Sciascia a gomorra(2008), che Matteo Garrone ha tratto dall’omonimo libro di Roberto Saviano, per citare solo due esempi.

  16. Si ricordino, a titolo d’esempio, in un altro paese, un film di Marco Turco scritto con Vania del Borgo e Alexander Stille (2005) e uomini soli, di Attilio Bolzoni e Paolo Santolini (DVD e libro, 2012), anch’essi incentrati sui rapporti fra lo Stato italiano e Cosa nostra.

  17. Per esempio Io ricordo, a cura della Fondazione progetto legalità, tratto da Per questo mi chiamo Giovanni di Luigi Garlando (Milano: Rcs Fabbri Editori, 2004) e La memoria ritrovata: storie delle vittime della mafia raccontate dalle scuole (Palermo: Palumbo, 2005). Per maggiori informazioni: www.progettolegalita.it.

  18. È interessante osservare, a margine, che la versione del film destinata al pubblico tedesco cambia sottotitolo e diventa belluscone: warum die italiener berlusconi lieben. Il film è uscito in Germania nell’aprile 2015.

  19. Anche perché magistrati e studiosi non parlano più di ‘mafia’ bensì di ‘mafie’ italiane.

  20. Oltre al già citato film di Garrone, si pensi a gomorra: la serie, curata dallo stesso Saviano e prodotta per Sky.

  21. La Guzzanti è stata accusata di essere ricorsa al succitato tweet di solidarietà per Riina e Bagarella con il preciso scopo di suscitare interesse intorno al film. Cfr. “Stato-mafia”, la Repubblica 9.10.2014.

  22. Cfr. “La trattativa a furor di popolo”, cinematografo.it 29.04.2015, http://cinematografo.it/news/la-trattativa-a-furor-di-popolo/, 26.02.2016, e “200 spettatori per La trattativa”, primonumero 03.02.2015, http://primonumero.it/attualita/primopiano/articolo.php?id=18622, 26.02.2016.

  23. Cfr. Tanja Weber, “‘Perché sono tutti cattivi’: Strategien der Anziehung und Abstoßung in gomorra: la serie”, Romanische Studien 2 (2015): 197–232, qui 231. Per riflettere sulla tesi suggerita da Tanja Weber varrebbe la pena di confrontare gomorra con altre fiction seriali italiane di grande successo e di carattere più classicamente poliziesco, come squadra antimafia: palermo oggi (Canale 5), ormai giunta all’ottava stagione (2016) e molto seguita anche sui social network.





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