“Rewriting, Rewritings in Early Modern Italian Literature”

Resoconto del convegno “Rewriting, Rewritings in Early Modern Italian Literature”, Berlino, 1–2 ottobre 2015

Roberta Colbertaldo

L’1 e il 2 ottobre 2015 si è tenuto presso la Humboldt-Universität di Berlino un convegno intitolato Rewriting, Rewritings in Early Modern Italian Literature, ideato e organizzato da Irene Fantappiè, ricercatrice e docente di letteratura italiana, e da Helmut Pfeiffer, professore di letterature romanze e comparate presso la stessa università. L’incontro si è svolto nell’ambito del Sonderforschungsbereich 644 “Transformationen der Antike” dedicato alle trasformazioni dell’antico da un punto di vista interdisciplinare e finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG). Hanno accolto l’invito specialisti di letteratura medievale e rinascimentale provenienti da diverse università europee e nordamericane. Gli interventi e il dibattito che ne è seguito si sono svolti in inglese e in italiano.

L’indagine si è concentrata soprattutto sulle riscritture nelle opere di autori del Cinquecento italiano. Un ulteriore argomento di discussione condiviso sia dai relatori che dal pubblico è stata la definizione delle forme di autorialità sviluppate nel Rinascimento attraverso la ripresa di modelli antichi e moderni, sia in lingua latina che in volgare, sia religiosi che profani. L’ordine dei contributi ha registrato un progressivo avvicinamento al vero protagonista dell’incontro: Pietro Aretino (1492–1556), parodista cinquecentesco per eccellenza.

Il convegno è stato aperto da Manuele Gragnolati (Oxford University/Université Paris-Sorbonne IV), che nella sua recente pubblicazione Amor che move: linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante (Il Saggiatore, Milano 2013) ha studiato i rapporti tra i tre autori menzionati nel titolo del ibro, applicando la teoria della diffrazione elaborata dall’epistemologa Donna Haraway per superare il tradizionale approccio alla riscrittura che vede una relazione gerarchica tra l’originale e la copia. Nel suo intervento, dal titolo “Beyond Hierarchy: Rewriting as Kippbild in Dante’s Vita Nova”, lo studioso ha approfondito soprattutto l’aspetto performativo dell’operazione con cui Dante include nella Vita Nova le Rime che aveva scritto in precedenza. Se è evidente che nel nuovo contesto le Rime dantesche assumono un significato diverso, Gragnolati ha posto l’accento sul fatto che tale significato non annulla né sostituisce quello che tali versi avevano in precedenza. Ad esempio, il sonetto A ciascun alma presa e gentil core, pur rimanendo uguale in entrambi i contesti, può essere letto autonomamente come sogno erotico oppure, una volta inserito nella Vita nova, anche come premonizione del destino di Beatrice. Questa doppia valenza può essere pensata, secondo Gragnolati, come un Kippbild: una lettura esclude temporaneamente l’altra, ma questo non avviene in modo definitivo e non impedisce di tornare al primo significato del testo. L’attenzione dello studioso si è rivolta quindi alla definizione della figura di Dante come auctor che si manifesta proprio attraverso l’autoesegesi: offrendo al lettore non solo i propri testi bensì anche una guida alla loro interpretazione, Dante compie un’operazione che si può definire già di per sé una riscrittura.

L’intervento di Helmut Pfeiffer, intitolato “Anakyklosis: Transformation of Transformations”, ha preso in considerazione la trasformazione del concetto di anaciclosi nelle riflessioni di Poibio, Machiavelli e Montesquieu. In primo luogo, Pfeiffer ha illustrato il concetto teorizzato nel VI ibro delle Storie da Poibio, che individua sei forme di governo (di cui tirannia, oligarchia e oclocrazia rappresentano rispettivamente le forme corrotte di monarchia, aristocrazia e democrazia) e considera naturale (biologico) il loro succedersi ciclico. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (ibro I, cap. 2) Machiavelli ‘riscrive’ il concetto poibiano. Pfeiffer ha identificato tre fondamentali differenze che separano l’approccio del fiorentino da quello dello storico greco, e cioè la temporalizzazione (poiché la prospettiva non è più evoluzionistica), la singolarità (vi è un solo inizio) e l’attenzione accordata alle costituzioni miste e ai principi di riduzione e rinnovazione. In ultima battuta, Pfeiffer ha dimostrato come Montesquieu nello Spirito delle leggi si ricolleghi alla tradizione di questi termini nel contesto della teoria politica illuminista. Lo studioso considera specifico della teoria di Montesquieu il fatto che il declino sia insito in tutte le forme di governo e che anche le istituzioni miste non possano rimediarvi. Il declino di un’istituzione, quindi, per Montesquieu non è legato né alla legge naturale (come per Poibio), né alle dinamiche temporali (come per Machiavelli) ma al proprio principio costitutivo. Pfeiffer conclude ricordando che in una prospettiva illuminista il dispotismo si differenzia dalle altre forme di governo poiché, essendo la paura il suo principio costitutivo, porta in sé il germe dell’autodistruzione e del declino.

L’intervento di Nicola Cipani (New York University), intitolato “Scriptura intrinseca: The Textual Makeover of Memory”, ha preso le mosse da alcuni trattati rinascimentali di mnemotecnica, come Dialogo del modo di accrescere e conservar la memoria di Lodovico Dolce e Plutosofia di Filippo Gesualdo, per mostrare la relazione tra ars memoriae e processi di riscrittura. Punto di partenza del suo discorso è stato il parallelo tra memoria e testo scritto, le cui origini sono da cercare nella Rhetorica ad Herennium. Nel passaggio da codice testuale a codice mnemonico la nozione di autore si complica, sia per l’esperienza sensoriale del codice stesso (che induce l’operatore a sentire più suoi i contenuti assimilati) che per la continua ibridazione delle fonti. Attraverso le illustrazioni contenute nei trattati, Cipani ha mostrato somiglianze e divergenze formali tra memoria e ibro, e più in generale tra la sua organizzazione e gli scaffali di una biblioteca.

La seconda giornata si è aperta con un intervento sulla satira e in particolare sulle satire di Ariosto, al quale è seguita la presentazione di Curione, un autore vicino ad Aretino e rilevante soprattutto per gli esempi di riscrittura intratestuale che offre.

Susanne Goumegou (Universität Tübingen) ha scelto il genere della satira come luogo di osservazione privilegiato dei procedimenti di intertestualità, in cui l’imitazione dei modelli convive con la rielaborazione della realtà contemporanea all’autore. Nel suo intervento, dal titolo “Ariosto e la satira del Rinascimento: una riscrittura di modelli antichi”, dopo una breve introduzione sulla storia del genere, che nasce nel Quattrocento italiano grazie alla riscoperta dei modelli antichi, Goumegou ha individuato nella satira ariostesca la compresenza della struttura comunicativa delle Epistulae oraziane e dei temi morali propri del sonetto e del capitolo in terza rima. Una lettura ravvicinata della quinta satira di Ariosto ha permesso alla studiosa di mettere in luce come la ripresa del tema dell’infedeltà femminile di Quintiliano offra l’occasione per un intreccio di richiami intertestuali. Si ritrovano infatti, sotto la maschera della satira oraziana, riferimenti ad Alberti e a Bracciolini. La sovrapposizione di questi motivi avviene all’insegna della relativizzazione da parte di Ariosto delle posizioni etico-morali sostenute dagli umanisti.

Davide Dalmas (Università di Torino) ha esposto i risultati della sua ricerca sulla figura di Celio Secondo Curione (1503–69), filologo e insegnante umanista noto per la sua collocazione nel volume Eretici italiani del Cinquecento (1939) di Delio Cantimori. Nel suo intervento, come indicato nel titolo “Da Venezia a Basilea: le riscritture di Curione”, lo studioso si è concentrato sul percorso che conduce questo poliedrico personaggio da Venezia a Basilea passando per Losanna, e ha collocato la produzione letteraria di Curione nel contesto degli scontri confessionali dell’epoca. Dalmas si è focalizzato sull’analisi del Pasquino in estasi, testo molto diffuso in forma anonima alla metà del Cinquecento ma di cui non è ancora disponibile un’edizione moderna. Chiaramente ispirato all’Orlando Furioso e in particolare al viaggio sulla luna di Astolfo, quindi già in sé luogo di riscrittura, il Pasquino in estasi è stato sottoposto negli anni Quaranta a varie rielaborazioni da parte di Curione ma anche di traduttori e tipografi. In particolare, Dalmas si è interessato alle diverse tipologie degli interventi di riscrittura tra il testo del primo Pasquino e il Pasquino nuovo (passi ripresi con puntuali cambiamenti, aggiunte, intere porzioni di testo spostate con puntuali modifiche, riscritture complete) e ha notato una chiara trasformazione tra la redazione legata al contesto veneziano e quella del Pasquino nuovo, databile al 1546 e legata al contesto svizzero. Dalmas ha evidenziato come l’elemento della satira si sovrapponga a quello delle istanze riformiste.

I successivi interventi si sono occupati di Pietro Aretino: della sua opera (sia dei “volumi allegri” che di quelli “divoti”) e in particolare delle sue riscritture, ma anche della sua figura autoriale, che è risultata ben più complessa di quella di un Aretino opportunista e maldicente delineata in passato.

Fantappiè, nel suo intervento dal titolo “Aretino and Lucian: Rewriting, Re-figuring”, ha individuato in Luciano di Samostata un modello dell’autorialità aretiniana, evidenziando un modus operandi comune nei confronti sia della tradizione letteraria sia della funzione dello scrittore nel contesto socio-culturale. Questo tipo di lettura ha permesso alla studiosa di identificare nei testi aretiniani, oltre a numerosi riferimenti intertestuali più o meno espliciti a volgarizzamenti dell’opera lucianea, un processo di ri-figurazione di Luciano in quanto autore. L’originale indagine intrapresa da Fantappiè ha coinvolto quindi l’atteggiamento nei confronti del modello oltre che aspetti microtestuali. In particolare, sono state riportate al modo lucianeo la parodia di testi autorevoli (ad esempio virgiliani) volta a smascherare la finzione insita nel testo letterario e la creazione esplicita di un alter-ego dell’autore; gli esempi forniti hanno dimostrato come Aretino non esiti ad appropriarsi di entrambe, pur trasformandole in relazione o in opposizione al contesto della propria epoca.

Marco Faini (Cambridge University) ha continuato il percorso di indagine propriamente aretiniano nel suo intervento “Aretino from St. John the Baptist to Savonarola: the Sette salmi de la penitenza di David”. Ripercorrendo le reminiscenze bibliche e savonaroliane dei Salmi aretiani, Faini ha definito un profilo dell’Aretino diametralmente opposto a quello dell’impostore. In particolare, lo studioso ha proposto un accostamento dei testi religiosi con quelli erotici sulla base di affinità testuali. Secondo Faini, sessualità e incarnazione, sessualità perversa e procreazione non sarebbero in Aretino opposti inconciliabili, e la stessa accusa di eresia potrebbe essere considerata inadeguata. Ne è seguito un proficuo dibattito che ha da una parte denunciato la negazione della fondamentale contraddittorietà dell’autore, che userebbe invece tutti i materiali letterari per costruire il proprio io (Ferroni), dall’altra ha sottolineato la necessità di analizzare il progressivo sviluppo del rapporto tra grazia e merito nei Salmi (Boillet).

Élise Boillet (Université François Rabelais, Tours), autrice del ibro Aretin et la bible (Droz, Ginevra 2007) e curatrice dell’edizione critica dei testi religiosi aretiniani per le edizioni nazionali in corso di stampa, si è concentrata sulla produzione religiosa dell’Aretino negli anni Trenta, e in particolare sul legame di questi col testo biblico. Nel suo intervento intitolato “La riscrittura della Bibbia nel Genesi di Pietro Aretino (1538)”, la studiosa definisce tre fasi della produzione religiosa aretiniana: quella confessionale, quella agiografica e quella pubblicistica. Per misurare l’originalità del Genesi, lo ha confrontato con i generi affini da cui Aretino ha attinto, quali i commenti, i compendi storici e le sacre rappresentazioni.

Ha concluso la discussione Giulio Ferroni (Sapienza – Università di Roma) con un intervento dal titolo “La Bibbia di Aretino”. Lo studioso ha indagato in particolar modo le riscritture aretiniane di materia religiosa, spesso considerate, a posteriori, incompatibili con i suoi scritti erotici. La scelta dei temi “divoti” è da attribuire infatti alla loro rilevanza nel contesto dell’epoca, che Aretino coglie e utilizza per imporsi al pubblico. Cifra comune tra i dialoghi erotici e i temi religiosi sarebbe quindi secondo Ferroni la spiccata individualità dell’autore volta al raggiungimento dell’egemonia nella cultura delle corti italiane. E Ferroni riporta parimenti all’artificio letterario, in un orizzonte manieristico, la definizione di Aretino, attraverso la polemica contro i pedanti, della necessità di una letteratura semplice, a modello dei Vangeli. Solo così la scrittura potrebbe contrapporsi alla dissimulazione e alle menzogne della corte. Ma in questo modo, paradossalmente, la riscrittura diventa antiscrittura, anticulturale e antipedantesca. Se l’ambizione alla purezza e alla semplicità diventano esse stesse artificio – rileva Ferroni – si ha una nullificazione e disintegrazione interna del discorso: le immagini di accumulano fino ad esplodere per le complicazioni retoriche.

In definitiva, l’impostazione teorica e le affinità tematiche degli ambiti di ricerca degli studiosi hanno permesso proficui e a volte inaspettati confronti. Le competenze filologiche sono state messe a disposizione di prove ermeneutiche a livello microtestuale, mentre interpretazioni globali sono state messe in discussione sulla base dell’ampio corpus di testi studiato.





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