“Nell’occhio che riscopre la luce”: tempo, storia e memoria nella poesia di Salvatore Quasimodo

Alessandro Martini

La scrittura poetica di Salvatore Quasimodo, dal 1917 delle prove giovanili al 1966 di Dare e avere, si è trovata a confronto con un quadro storico che va dagli albori del regime e da un clima carico di violenza e intimidazioni fino a un rilancio economico in parte ambiguo e deludente, passando per il tramite della guerra. Tra i numerosi quesiti che si pongono in questo scorcio di secolo all’uomo di lettere, la questione del rapporto con il tempo e con la storia appare stringente e difficilmente eludibile. La poesia quasimodiana può essere letta come una continua riflessione proprio su questo tema. Ricca di motivi e approcci, tentativi e riformulazioni, inviti accorati e recise affermazioni, tale riflessione rivela un poeta a disagio: pur con varianti ed eccezioni, Quasimodo fa mostra di una costante difficoltà di adesione a una e una sola temporalità; che si tratti del presente doloroso dell’esilio dall’amata Sicilia o di quello tragico della violenza bellica e del dopoguerra, del passato oramai smarrito dell’infanzia o di un futuro di là da venire che si può solo immaginare, il poeta non riesce a definirsi in un’unica dimensione temporale. Un tempo soddisfacente è puro miraggio: in equilibrio instabile tra la ferita per la perdita del passato, il desiderio di fissarsi nel presente, la volontà di immaginare un futuro, la poesia diventa così ricerca di una dimensione esistenziale completa. Tale rapporto tormentato con il tempo è segno di una tensione animata da irrequietezza che porta il poeta a interrogare le ere passate, i giorni dell’attualità, le ore in attesa.

“Compagno di viaggio” dell’ermetismo, secondo la celebre definizione di Carlo Bo, in modo non dissimile da altri poeti del gruppo, Quasimodo affida alle coordinate del tempo l’esternazione di un malessere. Senza per questo cadere in un “determinismo grezzo” che legherebbe il fascismo e la poesia ermetica attraverso “rapporti di causa e di effetto”1, è possibile affermare che nelle sillogi raccolte in Ed è subito sera (“Acque e terre”, “Òboe sommerso”, “Erato e Apòllion”, “Nuove poesie”), traspare la volontà quasimodiana di obliterare il presente, coincidente in questo caso con la dittatura. Il tempo della storia cede il passo a quello dell’intimo. Se il presente diventa sfocato, lo sguardo quasimodiano si volge in direzione del passato. Si fa strada il momento del ricordo, risale prepotente e inaspettato, complice un evento esterno, ciò che era stato riposto; un volo di uccelli a Milano è occasione per tornare con la mente a una situazione analoga vissuta altrove anni prima:

Risento
il monotono ridere senile
dei migranti acquatici,
lo scroscio improvviso di colombe
che divise la sera e a noi il saluto
a riva di Hautecombe.2

Il passato viene evocato tramite gesti ripetuti della memoria, da una poesia all’altra: “Ti rivedo”3; “Mi richiama talvolta la tua voce”4; “Sotto il capo incrociavo le mie mani | e ricordavo i ritorni”5; “Anima antica, grigia | di rancori, torni a quel vento”6; “Come ogni cosa remota | ritorni nella mente”7.

In questo moto della mente, che prende la forma di un’oscillazione incessante tra presente e passato, continui riferimenti a una realtà e a un tempo “altri” permettono di saggiare l’attualità per contrasto, misurandone la pochezza: “altra luce ti sfoglia sopra i vetri”8; “Altro sole”9; “Altro tempo”10; “Altra vita mi tenne”11; “[…] d’altra terra amaro”12; “d’altra vita sorpreso”13. Questi processi memoriali scatenano la confessione di una condizione dolorosa che solo una fuga verso il passato può lenire:

Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se infanzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volge,
e mi nascondo nelle perdute cose.14

Conferma dello stato d’animo qui evocato è il sovrapporsi di diverse dimensioni temporali; l’autunno dell’attualità (“Qui autunno è ancora nel midollo | delle piante”15) si sovrappone alla primavera del ricordo:

Nel nord della mia isola e nell’est
è un vento portato dalle pietre
ad acque amate: a primavera
apre le tombe degli Svevi;
i re d’oro si vestono di fiori.16

Tuttavia, non sempre il passato è definibile attraverso coordinate precise: spesso il presente fatto di pena cede il passo a una temporalità indeterminata, composta di stagioni sospese slegate dalla normale cronologia umana. Percorrendo i titoli di Ed è subito sera si nota un’insistenza marcata su grandi categorie temporali: la sera (“Ed è subito sera), il giorno (“Si china il giorno”, “La mia giornata paziente”, “Dammi il mio giorno”, “Primo giorno”), la notte (“Mai ti vinse notte così chiara”, “Alla notte”), le stagioni (“Antico inverno”, “S’udivano stagioni aeree passare”, “Autunno”, “Salina d’inverno”) e più generalmente il passare del tempo o il passato remoto (“Nell’antica luce delle maree”, “Nel giusto tempo umano”). Le stagioni si susseguono immutabili e indifferenti: “Nel pigro moto dei cieli | la stagione si mostra: al vento nuova”17; “S’udivano stagioni aeree passare, | nudità di mattini, | labili raggi urtarsi”18. Tale vaghezza temporale si proietta su un paesaggio scarnificato, costruito come un catalogo di elementi primigeni: “Monti secchi, pianure d’erba prima | che aspetta mandrie e greggi”19; “Isole che ho abitato | verdi su mari immobili”20; “Sorgiva: luce riemersa: | foglie bruciano rosee. || Giaccio su fiumi colmi | dove son isole | specchi d’ombre e d’astri [...]”21. In un mondo governato da acqua, aria, terra e fuoco non contano tanto gli anni misurabili sulla scala della vita umana, quanto piuttosto la concatenazione di macro-periodi all’interno dei quali trova posto la riflessione esistenziale del poeta.

Il meccanismo fin qui tratteggiato sembra essere attivo per buona parte della produzione quasimodiana che precede lo scoppio della Seconda Guerra mondiale. Tuttavia, già all’interno del sistema compatto e omogeneo del Quasimodo cosiddetto ermetico (quello di Ed è subito sera) si intravedono i primi segni di una crisi della temporalità descritta. “Ride la gazza, nera sugli aranci”, che inaugura la sezione “Nuove poesie” di Ed è subito sera (composta tra il 1936 e il 1942), è una riflessione sui tentativi di richiamo del passato, accompagnata da una valutazione della loro impotenza; a essi viene infatti opposto “un segno vero della vita”:

Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l’erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa à l’ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d’orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l’airone s’avanza verso l’acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.22

Benché fragile (l’avverbio “Forse” apre la poesia), il nuovo corso esorta alla vita qui e ora, come sottolineano i numerosi verbi al presente indicativo e all’imperativo, nonché il riferimento a elementi precisi del paesaggio:

E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d’orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi[.]23

Nonostante informi ancora buona parte delle “Nuove poesie”, la memoria – sembra annunciare Quasimodo – non offre che un breve rifugio fallace; per la prima volta è allora possibile immaginare un termine al suo dominio: “Memoria vi concede breve sonno; | ora, destatevi”24. L’impiego dei dimostrativi indica il desiderio di un deciso quanto arduo aggancio al presente: “Questa è l’ora: | non più mia, arsi, remoti simulacri.”25 Pur non essendo un appello all’azione, l’incipit delle “Nuove poesie” è da leggersi come un invito a non abbandonarsi completamente a ciò che è stato a discapito dell’attualità. Il processo così incominciato si svilupperà negli anni a venire. Laddove l’ultima sezione di Ed è subito sera abbandona a tratti la sola temporalità dell’intimo, le raccolte del dopoguerra rendono conto di un tempo stravolto rispetto al canone proposto negli anni prebellici. Le ere remote fanno largo ai minuti e alle ore che si sommano a comporre giorni di lutto, quelli del titolo della prima raccolta posteriore al conflitto. Giorno dopo giorno (1947) è una silloge marcata da espliciti riferimenti a una cronologia misurabile ed esperita: “19 gennaio 1944”; “Milano, agosto 1943”.

Tuttavia, a riprova della lontananza del poeta dal determinismo di cui sopra, anche quando il contesto storico preme con insistenza Quasimodo non si appiattisce unicamente su di esso. Il presente torna insomma protagonista, a differenza di quanto accadeva durante gli anni ermetici in una poesia illuminata da spazi siderei; ma non per questo si fa cronaca. Animato dalla volontà di evitare una scrittura didascalica, Quasimodo inscrive l’attualità in una prospettiva trans-storica. Si spiegano così i continui riferimenti alla più ampia storia dell’umanità al di là del periodo storico di scrittura, così come quelli a racconti mitici e fondatori. In effetti, il rischio è che la memoria degli eventi appena trascorsi, se considerata dalla prospettiva dell’immediatezza, si sgretoli; sono da intendersi anche in questo senso – oltre che come simboli esiziali – le ricorrenti immagini di scomparsa, caduta e distruzione legate alla violenza della guerra: “Sprofonderà l’odore acre dei tigli | nella notte di pioggia. Sarà vano | il tempo della gioia, la sua furia, | quel suo morso di fulmine che schianta”26; “[…] le nebbie che affondano nel fiume”27; “[…] E l’usignolo | è caduto dall’antenna, alta sul convento”28; “O cara, quanto | tempo è sceso con le foglie dei pioppi, | quanto sangue nei fiumi della terra”29.

È ancora una volta il tempo – inteso qui come mezzo in grado di riallacciare quanto accaduto alla storia dell’umanità – a farsi carico del compito di contrastare tale rischio. Attualità scottante e racconto biblico si legano in una concezione temporale che unisce epoche tra loro distanti: le grida dei civili inermi sotto il fuoco nazifascista sono le stesse di quelle degli innocenti (“lamento | d’agnello dei fanciulli”30); le morti dei partigiani ricordano quella di Cristo in croce: “all’urlo nero | della madre che andava incontro al figlio | crocifisso sul palo del telegrafo”31. Risuonano grida già pronunciate: “‘Mio Dio | perché m’hai lasciato?’”32. Del resto, nulla cambia: i “mostri della terra”33, colpevoli di aver ucciso la pietà e distrutto la croce, sono gli stessi di “quell[i] della pietra e della fionda”34; epigoni di una stirpe assassina, essi hanno “ucciso ancora, | come sempre, come uccisero i padri”; il sangue appena versato altro non è che quello di Abele, un sangue che “odora come nel giorno | quando il fratello disse all’altro fratello: | ‘Andiamo ai campi’”35.

Tale approccio al tempo ha come conseguenza un rafforzamento del ruolo che secondo Quasimodo è quello dello scrittore: “I poeti non dimenticano”36. La testimonianza quasimodiana si arricchisce pertanto di una portata che travalica le limitazioni del testimone, e che permette di non perdere il senso di un’esperienza tra le pieghe di una cronaca unicamente legata all’occasione. Il testimone quasimodiano, disceso negli inferi della guerra e da essi risalito, come Orfeo, l’auctoritas convocata dal poeta, “brulica | d’insetti, […] bucato dai pidocchi”, è “sporco ancora di guerra”37: ponendosi nella continuità del mito attraverso la sua riscrittura, la poesia riattualizza una vicenda eterna, potenziando di riflesso il presente della scrittura.

I fragili risultati così ottenuti devono tuttavia essere difesi strenuamente proprio da ore e minuti che girano come “antica ruota di ribrezzo”38. Di fronte a un tempo che è alleato ideale per eternare la memoria ma contemporaneamente antagonista capace di distruggerla, Quasimodo diviene protagonista di una lotta del cuore “con il suo tempo scosceso”39. Lo scontro con una scansione temporale che risuona in tutta la sua nudità si fa violento: “[…] battito di foglie | improvvise sui vetri della tua | finestra”40; “Batteva l’ora su estrema | riva d’Europa, insistente, smaniosa | d’innocenza”41; “[…] udivo cuori | crescere con me, battere | uguale età”42; “[…] qui udremo piangere l’angelo il mostro | le nostre ore future | battere l’al di là”43. Si preparano “ore | irte, brulle”44, si concretano immagini legate a una temporalità ostica, paesaggi dove i segni del passaggio del tempo non sono più decifrabili: “[…] per noi brucia | rovesciata la luna diurna e cade | al fuoco verticale”45.

Più grave di una semplice difficoltà di lettura, la posizione rovesciata della luna, così come la sua caduta appena citata, sta a simbolo del capovolgimento e della perdita di alcune certezze di un tempo. Quelle stesse stagioni che inquadravano l’intimità si fanno ora ossimoro: il “verde dell’aprile”46 è allo stesso tempo reale e menzognero (“Il falso e vero verde”); l’inverno è esitante e non si lascia riconoscere: “Già inverno, non inverno”47. Negli anni del dopoguerra, il tempo si avvita su se stesso. Il passato intimo è sempre più raramente un sollievo, come poteva esserlo in anni non ancora bruciati dal conflitto:

Che futuro
ci può leggere il pozzo
dorico, che memoria? Il secchio lento
risale dal fondo e porta erbe e volti
appena conosciuti.48

Persino l’amato mondo greco appare corrotto: la taverna “À la belle | Hélène de Ménélas” che si incontra “sulla strada di Micene alberata | di eucalyptus” offre sì “formaggio | di pecora e vino resinato”, ma “svia il pensiero dal sangue degli Atridi”49.

Di conseguenza il poeta, drammaticamente incapace tanto di decifrare il passato quanto di immaginare un futuro, si trova intrappolato in un presente cui è preclusa ogni possibilità di un seguito: “E tu misuri il futuro, il principio | che non rimane, dividi con lenta | frattura la somma di un tempo già assente”50. E anche se la chiusa di questa poesia lascia indovinare una non meglio specificata speranza (“Qualcuno verrà”), a prevalere è la perdita del “senso dello scorrere impassibile della distruzione”51. Svanisce del tutto la facoltà della poesia di spaziare tra le epoche: la pena nasce ora dalla stasi in una temporalità bloccata, piatta e senza prospettive: “[…] la fine è una superficie dove viaggia | l’invasore della mia ombra”52. Si tratta dell’eredità più ingombrante della guerra. Il periodo che segue il conflitto (raccolte La vita non è sogno, Il falso e vero verde, La terra impareggiabile) è infatti quello di maggiore crisi: il ricordo della Resistenza sfuma, e con esso le speranze e le attese.

Bisognerà allora tentare di assorbire e di rielaborare il “tempo colore di pioggia e di ferro”53 della guerra; vincendo l’immobilismo, il poeta dovrà essere in grado di esprimersi sull’intimo e sul presente, e contemporaneamente di sorpassare le limitazioni dell’attualità e dell’io. Solo così egli potrà eternare il ricordo di una stagione dolorosa, e mettere l’intimo al servizio del collettivo. Tale sarà l’ottica di lettura della silloge Dare e avere (1966). È qui possibile instaurare “un dialogo con l’al di là”54, in un’esistenza in cui in maniera quasi indolore si può “cadere dalla vita”55, passare da quest’ultima alla morte senza scossoni: “Non devo confessioni alla terra, | nemmeno a te morte, oltre la tua | porta aperta sul video della vita”56. Ecco allora che il tempo si distende, il nome del poeta potrà essere udito anche dopo la sua dipartita: “[…] un altoparlante improvvisamente | vuoto di suoni | dirà il mio nome libero dall’al di là”57. Il futuro, che trascende la finitezza umana (“Il presente è fuori di me | e non potrà contenermi che in parte”58), può finalmente essere considerato come tempo ancora da vivere: “Il tempo non è finito, nessuno mi parla | dei giochi della natura, degli equilibri, | delle leggi”59.

All’altezza di Dare e avere, Quasimodo sente di appartenere a una dimensione cronologica che abbraccia l’insieme dell’arco temporale, senza esclusioni; si apre per lui un tempo non più solo personale, che è il risultato della somma di esistenze diverse, tutte armoniosamente unite:

Un colle, i simboli
del tempo, lo specchio della mente
continuo immobile
ascoltano se stessi, attendono
la risposta futura.60

Per un uomo reduce dalle tenebre della catabasi bellica, il ritorno in superficie coincide con la possibilità di leggere nuovamente le ore: “E ricomincia il tempo visibile | nell’occhio che riscopre la luce”61. La dolorosa e insopportabile stasi del dopoguerra sembra superata; i minuti ricominciano a scorrere, fluiscono legando insieme ciò che è stato e quanto verrà:

la ruota del mulino si stacca
alla piena dell’acqua
ma continua il suo giro
e avvolge un minuto
al minuto passato o futuro.62

Quasimodo è qui poeta del “tempo paziente”63, del “tempo senza forma”64: sia la memoria del passato, non solo vissuto ma dell’umanità tutta, sia le speranze di cui il futuro è latore sono state accolte e messe a disposizione. In un tempo non più negato, il presente torna a essere frequentabile, e il futuro visibile:

Certo non potrò sfuggire;
sarò fedele alla vita e alla morte
nel corpo e nello spirito
in ogni direzione prevista, visibile65


  1. Luciano Ancheschi, Ermetismo, in Enciclopedia del Novecento (Roma: Ist. della Enciclopedia Italiana, 1977), http://www.treccani.it/enciclopedia/ermetismo_(Enciclopedia-del-Novecento), consultato il 10/03/2015.

  2. Salvatore Quasimodo, “Piazza Fontana”, in: Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di Gilberto Finzi (Milano: Mondadori, 2005), 109. Tutte le citazioni delle poesie di Salvatore Quasimodo sono tratte da quest’edizione.

  3. Quasimodo, “E la tua veste è bianca”, Poesie, 13.

  4. Quasimodo, “Vicolo”, Poesie, 29.

  5. Quasimodo, “I ritorni”, Poesie, 31.

  6. Quasimodo, “Strada di Agrigentum”, Poesie, 102.

  7. Quasimodo, “La dolce collina”, Poesie, 103.

  8. Quasimodo, “Vento a Tìndari”, Poesie, 10.

  9. Quasimodo, “S’udivano stagioni aeree passare”, Poesie, 22.

  10. Quasimodo, “Vicolo”, Poesie, 29.

  11. Quasimodo, “In me smarrita ogni forma”, Poesie, 35.

  12. Quasimodo, “Alla mia terra”, Poesie, 41.

  13. Quasimodo, “Preghiera alla pioggia”, Poesie, 52.

  14. Quasimodo, “Isola”, Poesie, 60.

  15. Quasimodo, “Sulle rive del Lambro”, Poesie, 112.

  16. Quasimodo, “Sulle rive del Lambro”, Poesie, 112.

  17. Quasimodo, “Ariete”, Poesie, 15.

  18. Quasimodo, “S’udivano stagioni aeree passare”, Poesie, 22.

  19. Quasimodo, “Terra”, Poesie, 17.

  20. Quasimodo, “Cavalli di luna e di vulcani“, Poesie, 118.

  21. Quasimodo, “Nascita del canto”, Poesie, 42.

  22. Quasimodo, “Ride la gazza, nera sugli aranci”, Poesie, 101.

  23. Quasimodo, “Ride la gazza, nera sugli aranci”, Poesie, 101.

  24. Quasimodo, “Ride la gazza, nera sugli aranci”, Poesie, 101.

  25. Quasimodo, “Ride la gazza, nera sugli aranci”, Poesie, 101.

  26. Quasimodo, “Forse il cuore”, Poesie, 130.

  27. Quasimodo, “La notte d’inverno”, Poesie, 131.

  28. Quasimodo, “Milano, agosto 1943”, Poesie, 132.

  29. Quasimodo, “La muraglia”, Poesie, 133.

  30. Quasimodo, “Alle fronde dei salici”, Poesie, 125.

  31. Quasimodo, “Alle fronde dei salici”, Poesie, 125.

  32. Quasimodo, “Anno Domini MCMXLVII”, Poesie, 154.

  33. Quasimodo, “Giorno dopo giorno”, Poesie, 129.

  34. Quasimodo, “Uomo del mio tempo”, Poesie, 144.

  35. Quasimodo, “Uomo del mio tempo”, Poesie, 144.

  36. Quasimodo, “Il mio paese è l’Italia”, Poesie, 155.

  37. Quasimodo, “Dialogo”, Poesie, 150.

  38. Quasimodo, “Tempio di Zeus ad Agrigento”, Poesie, 174.

  39. Quasimodo, “Il falso e vero verde”, Poesie, 166.

  40. Quasimodo, “Il falso e vero verde”, Poesie, 166.

  41. Quasimodo, “In una città lontana”, Poesie, 167.

  42. Quasimodo, “Vicino a una torre saracena, per il fratello morto”, Poesie, 173.

  43. Quasimodo, “Auschwitz”, Poesie, 182.

  44. Quasimodo, “Il falso e vero verde”, Poesie, 166.

  45. Quasimodo, “Tempio di Zeus ad Agrigento”, Poesie, 174.

  46. Quasimodo, “Il falso e vero verde”, Poesie, 166.

  47. Quasimodo, “Dalla natura deforme”, Poesie, 198.

  48. Quasimodo, “Tempio di Zeus ad Agrigento”, Poesie, 174.

  49. Quasimodo, “Micene”, Poesie, 216.

  50. Quasimodo, “Un arco aperto”, Poesie, 199.

  51. Quasimodo, “Un arco aperto”, Poesie, 199.

  52. Quasimodo, “Visibile, invisibile”, Poesie, 195.

  53. Quasimodo, “Colore di pioggia e di ferro”, Poesie, 195.

  54. Quasimodo, “Una notte di settembre”, Poesie, 238.

  55. Quasimodo, “Varvàra Alexandrovna”, Poesie, 236.

  56. Quasimodo, “Una notte di settembre”, Poesie, 238.

  57. Quasimodo, “Dalle rive del Balaton”, Poesie, 240.

  58. Quasimodo, “Il silenzio non m’inganna”, Poesie, 244.

  59. Quasimodo, “Capo Caliakra”, Poesie, 243.

  60. Quasimodo, “Nell’isola”, Poesie, 252.

  61. Quasimodo, “Non ho perduto nulla”, Poesie, 251.

  62. Quasimodo, “Impercettibile il tempo”, Poesie, 255.

  63. Quasimodo, “Ho fiori e di notte invito i pioppi”, Poesie, 257.

  64. Quasimodo, “Tollbridge”, Poesie, 241.

  65. Quasimodo, “Ho fiori e di notte invito i pioppi”, Poesie, 257.





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